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©2017 Fotografico, Senato della Repubblica

Questo è un momento senza precedenti per i rapporti tra scienza e società. L'incubo globale in cui siamo precipitati dall'inizio del 2020 comporta anche che, per la prima volta, il mondo osservi la scienza costruire "in diretta" nuovi pezzi di conoscenza. Prove, successi ed errori avvengono sotto una copertura mediatica globale mai così estesa, capillare, intrusiva.

Per quello che ho potuto osservare nel contesto italiano, la pandemia ha provocato una improvvisa e forzata “conquista” di visibilità degli studiosi. A questa visibilità corrisponde una altrettanto grande responsabilità: quella di muoversi efficacemente, con il linguaggio appropriato, in un nuovo e sconosciuto spazio pubblico di massa, usando come “bussola” i princìpi del metodo scientifico. Ossia l’aderenza alle evidenze disponibili, la capacità di distinguere tra la realtà osservata e le opinioni, tra certezze e probabilità, tra aspettative e interessi personali. Oltre al coraggio di cambiare strada e orientamento qualora le prove ne dimostrino la necessità.

In alcune occasioni, negli ultimi mesi, queste distinzioni sono venute meno, con il rischio di conseguenze nefaste sul dibattito pubblico e sulla percezione che i cittadini hanno della realtà. Penso, ad esempio, a quanto spesso il pubblico ha avuto l’impressione di trovarsi di fronte a una "scienza divisa". Quando ci si trova all’inizio di un percorso di conoscenza su un fenomeno complesso come quello Sars-CoV-2, è comprensibile che esso sia descritto e analizzato in modo differente da un epidemiologo, un virologo, un clinico, un economista o un sociologo. Comprendere e rendere accessibile la complessità, pesare nel modo giusto le diverse competenze e farle dialogare sempre e comunque a partire dalle evidenze, sono le sfide più grandi che gli scienziati e i media hanno di fronte.

Dopo alcuni anni vissuti a stretto contatto con la politica italiana, specie quella parlamentare, mi accorgo di quanto lunga e importante sia la strada che porta a chiedere, riconoscere e incorporare il metodo scientifico e i suoi risultati nelle decisioni che toccano la vita di tutti noi. Dopo una vita passata all’interno della comunità scientifica di questo Paese, alle cui conquiste ho sempre guardato con grande ammirazione, mi accorgo di quanto la continua presenza di quel metodo e delle sue prove nella sfera politica e pubblica sia indispensabile alla dialettica democratica.

A volte le evidenze scientifiche possono risultare scomode, e ignorarle per assecondare le paure e gli umori dei cittadini può produrre consenso sul breve termine. Per troppi anni la politica italiana ha ritenuto di poter fare a meno delle evidenze nel processo decisionale, oppure di poterne tener conto solo parzialmente, omettendone gli aspetti più impopolari.

Allo stesso tempo, molta parte della comunità scientifica si è illusa di poter limitare il proprio ruolo “entro i confini del laboratorio”. Ha quindi rinunciato a difendere quelle evidenze contro ogni tentazione semplificatoria e manipolatoria, e ad esigere che fossero messe nella loro interezza al servizio del legislatore e del dibattito pubblico. Ragioni di comodo o interessi e ambizioni puntiformi -"ad ente" e talvolta persino personali - hanno spesso portato gli scienziati italiani a venir meno al loro ruolo, scegliendo ad esempio di rinunciare a vigilare sulla corretta assegnazione e gestione dei fondi pubblici destinati alla ricerca o a rettificare le interpretazioni pubbliche errate o parziali dei dati disponibili. Scienza e politica, potremmo dire, si sono "sfruttate a vicenda", riconoscendosi in un reciproco opportunismo.

In assenza di buona amministrazione pubblica e di rigorosa promozione della trasparenza, delle prove e del confronto, si crea un “vuoto” pericoloso, contrario al metodo scientifico e all’interesse pubblico. Una conseguenza del "vuoto" descritto è l'aver aperto la strada agli opportunismi di chi è pronto a piazzare le loro false “certezze alternative”. Così è successo per la ricerca sul miglioramento genetico delle colture (gli Ogm) osteggiata nel nostro Paese, per l’opposizione alla ricerca sulle cellule staminali embrionali, per le aperture legislative a Stamina, per la sponda politica data ai movimenti no-vax, per la (mancata) lotta alla Xylella in Puglia, per i prodotti biologici.

E così succederà per decine di studiosi italiani, se il 1 gennaio 2021 entreranno in vigore in Italia i divieti alla sperimentazione animale in materia di sostanze d'abuso (ivi compresi molti principi attivi alla base di farmaci) e xenotrapianti. Divieti diventati legge nel nostro Paese nel 2014, subito sospesi in quanto in contrasto con la Direttiva 2010/63 dell’Unione europea, tuttavia mai cancellati e quindi prossimi a diventare operativi a fine anno quando scadrà l’ultima proroga alla loro entrata in vigore. La procedura europea di pre-infrazione nei confronti del nostro Paese è già scattata.

Per invertire la rotta, è necessario che la voce di Università, Enti e Ospedali di ricerca, Società scientifiche, Accademie, di ogni giovane e meno giovane studioso, si levi a “sentinella sociale della conoscenza”, contro ogni deragliamento. Gli scienziati italiani lamentano spesso che la politica non conosce e non comprende il metodo scientifico, e con le dovute eccezioni questo è vero. Ma per esercitare appieno il loro ruolo, è essenziale che anche gli scienziati conoscano e comprendano i metodi della politica. Imparare le procedure decisionali delle istituzioni, seguire l'iter dei provvedimenti e intervenire al primo sentore di un deragliamento verso decisioni arbitrarie prese nel nome della pseudoscienza permetterebbe agli studiosi di offrire al legislatore un supporto tempestivo per "correggere la rotta", diventando interlocutori stabili della politica su scienza, ricerca e salute pubblica.

Oggi, le urgenze dettate dalla pandemia mondiale hanno costretto scienza e politica a guardarsi in faccia: prima ciascuna riconoscerà l'altra nella sua interezza, alterità e complementarietà, prima troveremo la chiave per uscire dall'emergenza.