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An infusion pump for chemotherapy. Credit: myrainjom01/iStock/Getty Images Plus.

I biomarcatori molecolari sono usati frequentemente nelle terapie oncologiche per guidare l'uso di farmaci mirati, come gli anticorpi monoclonali o le immunoterapie. È meno comune invece che le caratteristiche molecolari del tumore si mostrino in grado di predire l'efficacia della chemioterapia.

Un gruppo di ricercatori di Paesi Bassi, Regno Unito e Italia ha trovato indicazioni1 che le mutazioni a carico di un gene chiamato KRAS, localizzato sul cromosoma 12, predicano l'efficacia del farmaco chemioterapico trifluridina/tipiracil, utilizzato nei pazienti con malattia metastatica del colon retto che non hanno risposto ai trattamenti di prima e seconda linea. Il gene era già noto ai clinici, perché le sue mutazioni possono rendere i tumori resistenti alle terapie a base di anticorpi monoclonali.

Lo studio è partito dall'analisi dell'intero genoma di 37 pazienti che avevano ricevuto trifluridina/tipiracil in 13 ospedali dei Paesi Bassi. Tra i vari tratti genomici, quello che riguarda il codone G12 del gene KRAS è risultato quello associato in modo più significativo a una riduzione della sopravvivenza. I ricercatori hanno quindi creato una coorte retrospettiva composta da 960 pazienti, 830 dei quali trattati in 31 centri clinici in Italia e il resto in cinque centri nel Regno Unito. Hanno confrontato l'evoluzione dei tassi di sopravvivenza dopo la somministrazione di trifluridina/tipiracil nei pazienti con e senza mutazione KRAS G12 e hanno riscontrato una differenza statisticamente significativa nei tassi di mortalità dei due gruppi.

Per convalidare ulteriormente questi risultati, gli studiosi hanno poi rianalizzato i dati raccolti dallo studio RECOURSE2, che nel 2017 portò all'approvazione del farmaco, separando i pazienti in base alle caratteristiche genomiche del codone G12 del gene KRAS. I 185 pazienti con la versione mutata non hanno avuto un prolungamento significativo della sopravvivenza globale rispetto ai 94 trattati con placebo. I pazienti senza mutazione hanno avuto invece un miglioramento della sopravvivenza globale (7,7 mesi contro 4,9 mesi).

"Considererei i nostri risultati come un punto di partenza per ulteriori ricerche", afferma Michele Ghidini, oncologo dell'Ospedale Maggiore Policlinico Ca' Granda di Milano che ha curato la raccolta dei dati clinici dei centri italiani. "Abbiamo bisogno di dati più solidi e prospettici per modificare le linee guida cliniche".