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Un'immagine recente di una strada del centro storico di Napoli. Credit: Salvatore Laporta/KONTROLAB/LightRocket via Getty Images.

Quasi due anni dopo i primi casi segnalati in Italia, la pandemia continua a occupare quotidianamente le prime pagine. Siamo all’ennesima «ondata», ma sembrano avvicinarsi il «picco» e quindi la discesa dei casi. Se l’attenzione al momento è mirata su Omicron, le mutazioni del virus non possono farci escludere, in futuro, nuove varianti. Alle polemiche su misure sanitarie, green pass e vaccinazione dei bambini si sono aggiunte quelle sulla «terza dose»: quanto e per quanto immunizza? E più recentemente sulla «quarta dose»: serve veramente? Anche sull’obbligo vaccinale le posizioni sono opposte, tra chi la ritiene liberticida e chi giudica le sanzioni insufficienti. In questo periodo è poi particolarmente discussa l’inclusione, tra i conteggiati come positivi, dei soggetti asintomatici e ospedalizzati per altre cause.

Questo flusso continuo di notizie, dati, commenti, interpretazioni, che abbiamo cercato di sottolineare in un recente libro1, costituisce una sorta di secondo virus, che genera ambiguità, disorientamento e comportamenti a rischio: dal rifiuto della vaccinazione alle cure «fai da te», fino alla negazione stessa del virus e della pandemia. L’infodemia è un contagio che non si esprime solo tramite fake news e informazioni distorte o scorrette, ma anche attraverso i consueti canali di informazione e comunicazione, quando i media non distinguono le fonti per attendibilità e autorevolezza e quando la comunità scientifica si piega con i suoi interventi alla polarizzazione imperante.

C’è bisogno di un’informazione attenta, sobria, di voci istituzionali competenti e credibili, di evitare banalizzazioni, tecnicismi, personalismi, ideologizzazione. Ma, forse più di tutto, occorre esercitare cautela, dubbio, critica e autocritica, evitando di proferire affermazioni come fossero certezze e anzi evidenziando il loro grado di incertezza.

Bisogna far capire che sul piano scientifico, soprattutto in una situazione “in fieri” con ampli margini di incertezza come questa pandemia, non ci sono decisioni o posizioni giuste o sbagliate in assoluto. Per esempio, categorizzare le persone contagiate - asintomatici, paucisintomatici, gravi, vaccinati e non, ospedalizzati con o senza patologie pregresse, etc. - facilita le analisi di rischio, ma tutti i contagiati ricoverati vanno comunque isolati dagli altri pazienti. Un vaccino insufficiente per non contagiarsi ma che contiene significativamente i sintomi della malattia può apparire forse meno utile, ma in realtà riduce l’impatto del virus sulla sanità pubblica. Distinguere tra ricoverati per COVID o con COVID può avere un significato diverso, a seconda che si guardi alla saturazione dei reparti ospedalieri oppure ai «colori» delle regioni.

I toni della narrazione «da guerra», pur comprensibili, rischiano di indurre un allarmismo eccessivo; la diffusione quotidiana dei dati, ancorché dettata da accordi internazionali e indicazioni OMS, potrebbe ormai essere ripensata. Una diversa modalità di comunicazione di dati e notizie, privilegiando analisi di tendenza rispetto ai numeri “freddi”, non va vista come una lesione della libertà di comunicazione, ma come un modo per avere dati di maggiore significato, più utili per mass media e cittadini a rappresentare in maniera corretta la prospettiva pandemica. Visto che, anche secondo l'OMS, l'infodemia è un pericolo che concorre con la pandemia. Lo diciamo dai nostri punti di vista speculari, quello di un giornalista e quello di un ricercatore di un istituto di ricerca.

La comparsa del virus Sars-Cov-2 ha amplificato le fragilità locali e globali, ha catalizzato mutamenti sociali, culturali ed economici, ha messo in discussione il ruolo della scienza rispetto alla società. Per questo condividiamo la proposta, avanzata da Richard Horton, Editor-in-Chief della rivista The Lancet, di descrivere COVID-19 come una «sindemia», cioè il combinato disposto dei vari fenomeni che stiamo conoscendo. Per affrontarla occorre acquisire la consapevolezza del fatto che i modelli adottati per comprendere la realtà hanno sempre un margine di interpretazione e imprecisione; cercare di non esasperare l’alternarsi tra nuove ondate virali e periodi di «rallentamento»; uscire dalle «bolle» nelle quali finiamo per ricevere e inviare solo notizie che già corrispondono all'idea che ci siamo fatti, e attuare un «public engagement», il coinvolgimento del pubblico.

È giunta la fase in cui comunicare meno e meglio, ripensare il rapporto tra chi fa ricerca e chi lavora nella comunicazione, per affrontare in modo più consapevole non solo questa ma anche le emergenze future a partire dall’esperienza fatta.