Read in English

Una famiglia peruviana lavora la terra vicino al villaggio di Maras, Peru. Credit: Tiago_Fernandez/ iStock Editorial / Getty Images Plus.

Le attuali coltivazioni sono il risultato del processo di domesticazione, iniziato meno di 12.000 anni fa quando gli agricoltori cominciarono a selezionare piante selvatiche più nutrienti, appetibili e più facili da coltivare e raccogliere rispetto alle altre. Nel tempo, questo processo ha reso le piante più produttive, ma ha ridotto la loro variabilità genetica, rendendo le colture moderne vulnerabili ai cambiamenti climatici e ai parassiti.

Uno studio su Nature Plants1 mostra che, centinaia di anni fa, gli agricoltori delle Ande meridionali avevano trovato un buon equilibrio tra efficienza e variabilità genetica delle loro colture, un equilibrio a cui mira anche l’odierna agricoltura sostenibile.

I ricercatori hanno sequenziato interi genomi da antichi semi di fagiolo comune (Phaseolus vulgaris), raccolti da vari siti archeologici in Argentina e datati con il radiocarbonio tra 2500 e 600 anni fa. Dimostrare che i semi dei legumi possono essere una così buona fonte di DNA antico è di per sé un risultato importante, notano i ricercatori. Hanno quindi confrontato i genomi antichi con quelli di semi moderni, provenienti da tutta l'America centrale e meridionale, ricostruendo la linea temporale sia della domesticazione che dell'erosione genetica.

Le principali firme genomiche della domesticazione, che distinguono il fagiolo comune dalle varietà selvatiche, erano già presenti nei semi antichi. Tra queste, per esempio, gruppi di geni associati alla sintesi degli zuccheri e alla risposta allo stress. Ma quegli antichi genomi mostravano ancora molta più variabilità genetica rispetto alle loro controparti contemporanee.

"I nostri risultati introducono l'idea che i tratti selezionati siano emersi inizialmente senza una significativa perdita di variabilità genomica", afferma Emiliano Trucchi, ricercatore presso l'Università Politecnica delle Marche e coautore dello studio. La perdita di variabilità, spiega, si è verificata principalmente con la coltivazione moderna basata su incroci nel secolo scorso.

Quella perdita di variabilità è una delle maggiori minacce per l’agricoltura odierna, perché rende difficile il miglioramento genetico delle colture, essenziale per affrontare un ambiente che cambia e una popolazione umana in crescita. "La selezione dei fagioli da parte degli agricoltori andini è stata lenta, e forse accompagnata da scambi di semi tra le popolazioni" spiega Giorgio Bertorelle, professore associato all'Università di Ferrara e autore principale dello studio. “Non è facile immaginare una tecnica che consenta la produzione alla velocità odierna mantenendo la necessaria variabilità genetica”. Una possibilità, spiega, sarebbero nuovi schemi di incroci che coinvolgano le banche del seme internazionali.

Se ci fosse una mappatura perfetta delle corrispondenze tra specifiche mutazioni genetiche e fenotipo, spiegano gli autori, si potrebbero utilizzare moderne tecniche di modificazione genetica per ottenere le caratteristiche desiderate senza usare gli incroci, che diminuiscono la variabilità. L’idea sarebbe di fare quello che facevano gli antichi agricoltori andini, ma più velocemente. Ma ad oggi, spiega Trucchi, questa mappa è lungi dall'essere completa, perché molti tratti importanti sono controllati da diversi geni che interagiscono tra loro.