Read in English

Illustrazione che rappresenta la reazione degli anticorpi (rossi e blu) a un’ infezione provocata dal nuovo coronavirus SARS-CoV-2 (in viola). Credit: KTSDESIGN/SPL/ GETTY

La scorsa primavera, mentre in Italia la pandemia da coronavirus faceva migliaia di vittime, Stefano Casola ha deciso che non poteva più restare con le mani in mano. Medico di formazione, Casola ha lasciato l’attività clinica più di 20 anni fa per dedicarsi alla ricerca delle basi molecolari del linfoma, una forma di tumore del sangue. A marzo, mentre un lockdown che coinvolgeva l’intera nazione costringeva alla chiusura il suo laboratorio all’Istituto FIRC di Oncologia Molecolare di Milano, si è messo in cerca di un modo per contribuire a combattere la pandemia. “Mi sono detto, lasciamo i progetti sui linfomi da parte per il momento e utilizziamo tutto quello che sappiamo in laboratorio per aiutare”, ricorda.

Casola è tra le decine di scienziati italiani che, nei mesi scorsi, hanno riadattato i propri laboratori per affrontare la pandemia. In un paese afflitto dai tagli agli investimenti nella scienza di base, l’improvvisa disponibilità di finanziamenti per la ricerca sul COVID-19 ha spinto molti ricercatori a riorientare competenze, protocolli e attrezzature per cercare soluzioni alla pandemia. E mentre il governo italiano sta imponendo nuove restrizioni nel mezzo di una seconda ondata di casi da coronavirus, i ricercatori sperano che fare ricerca su questo agente patogeno permetterà in ogni caso di tenere aperti i propri laboratori.

“A marzo, aprile e maggio c'è stato da parte di molti ricercatori il tentativo di riconvertire gli sforzi verso SARS-CoV-2, in parte perché era l'unico modo per poter lavorare,” ammette Matteo Iannacone, immunologo all’Ospedale San Raffaele di Milano, dove sta sviluppando nuovi modelli murini della malattia. “Adesso si è molto ampliato il divario tra chi ha prodotto dei risultati e chi invece no, quindi molti sono tornati a lavorare su quello su cui lavoravano prima,” spiega. Ma – aggiunge – l’agenda la dettano i finanziatori della ricerca. “Se ci sono tanti finanziamenti attivi su coronavirus, i laboratori cercheranno di accaparrarseli.”

Domande aperte

L’Italia è stato il paese europeo colpito più duramente all’inizio della pandemia. Ad aprile, il Ministero della Salute italiano ha destinato 7 milioni di euro a sostegno della ricerca sul COVID-19. Anche alcuni governi regionali hanno annunciato finanziamenti. La Lombardia, la regione più colpita nella prima ondata, ha stanziato 4 milioni di euro, e altri fondi sono arrivati dalle università e da fondazioni.

All’epoca, c’erano molte questioni aperte sull’immunità contro il SARS-CoV-2 e su quanto a lungo chi guarisce sia protetto da una nuova infezione, ricorda Casola. Da anni, il suo gruppo di ricerca studia come i linfomi scaturiscono da alterazioni del DNA di cellule immunitarie che combattono le infezioni. Da qui la decisione di usare le competenze e l’esperienza del suo team per predisporre un test mirato a identificare gli anticorpi contro il virus in una goccia di sangue. Identificando più sottotipi degli anticorpi più longevi, che restano nell’organismo per mesi o per anni, questo test sarebbe più idoneo di quelli esistenti per stabilire se un individuo ha acquisito un’immunità a lungo termine – spiega Casola. Il test non è ancora approvato per uso clinico, ma il team di Casola lo ha impiegato per monitorare la risposta immunitaria di un gruppo di operatori sanitari di Brescia che, mesi fa, erano guariti dalla malattia. Finora, hanno rivelato tutti una forte risposta immunitaria, il che fa pensare a una protezione di lunga durata, commenta Casola.

I ricercatori stanno anche setacciando il sangue degli stessi individui, cercando l'anticorpo che si lega in modo più efficiente alla proteina usata dal virus per entrare nelle cellule. Terapie a base di anticorpi sono già autorizzate o in fase di studio, ma ne serviranno altre, anche in caso di un vaccino, per curare pazienti con un sistema immunitario compromesso o che non rispondono al vaccino.

Immagine al microscopio elettronico di SARS-CoV-2 (gli oggetti azzurri rotondi) che emergono dalla superficie di una cellula coltivata in laboratorio. Credit: NIAID-RML

Altri ricercatori hanno colto l’occasione del lockdown per sviluppare progetti legati al COVID-19. Carla Colombo, pediatra al Policlinico di Milano, studia solitamente la fibrosi cistica, una malattia genetica che causa infezioni polmonari persistenti. Dopo l’ondata pandemica, ha preso contatto con ricercatori in tutta Italia per sviluppare un progetto volto a monitorare le conseguenze del COVID-19 in gruppi differenti di persone, incluse quelle affette da fibrosi cistica o da altre malattie respiratorie. Lo studio, finanziato con quasi 800.000 euro dal Ministero della Salute, analizzerà anche quali proteine sono espresse nelle cellule polmonari nei pazienti COVID-19. Lo scopo è identificare biomarcatori della forma più grave della malattia ed eventuali target terapeutici.

Anche se nelle prossime settimane il governo italiano dovesse chiudere università e laboratori su tutto il territorio per bloccare una seconda ondata di coronavirus, lo studio di Colombo sarà molto probabilmente considerato essenziale e quindi esentato dalle restrizioni. “Purtroppo non avremo problemi ad ottenere campioni positivi al coronavirus”, commenta la dottoressa. “Speravamo che la seconda ondata non fosse di questa entità.”

Unire le forze

Secondo Barbara Montanini, biologa molecolare all’Università di Parma, l’unico effetto collaterale positivo della pandemia da coronavirus è forse di avere stimolato gli scienziati a collaborare. Qualche anno fa Montanini aveva sviluppato coi suoi collaboratori una piattaforma di screening per la ricerca di molecole che bloccano l’interazione tra due proteine. La piattaforma è poi stata utilizzata per identificare sostanze che potrebbero interferire con la crescita dei batteri, ed essere quindi impiegate come antibiotici. Ora Montanini ha unito le forze con altri ricercatori per riprogettare la piattaforma, al fine di scoprire molecole che impediscono alle proteine del coronavirus di legarsi a recettori sulle cellule umane. Se sicura ed efficace, una molecola di questo tipo si potrebbe produrre su larga scala, liofilizzare e somministrare sotto forma di spray orale. Lo scorso settembre questa ricerca ha ricevuto una sovvenzione di 47.000 euro dall’Università di Parma, ma i ricercatori erano al lavoro già da prima. “Questo progetto ci ha appassionato così tanto che avevamo già iniziato ad investirci soldi provenienti da fondi liberi,” spiega Montanini.

Altri ricercatori hanno investito i propri fondi di laboratorio in studi sul COVID-19. Il biologo strutturale Federico Forneris, dell’Università di Pavia, che studia come la produzione di collagene contribuisce alle metastasi tumorali, ha usato il denaro di finanziamenti precedenti per produrre grandi quantità di proteine chiave del SARS-CoV-2, come la proteina umana che fornisce il punto d’ingresso del virus. Le proteine sono state usate da altri gruppi di ricerca per sviluppare un test anticorpale per il coronavirus e per indagare come la sua capacità di legarsi a recettori umani varia nel tempo. Il test è in attesa di approvazione dal Ministero della Salute.

Come osserva lo stesso Forneris, lavorare con il COVID-19 ha dato al suo team un vantaggio competitivo. Quando, a marzo, il laboratorio è stato chiuso, i ricercatori hanno dovuto abbandonare le colture cellulari usate per produrre proteine, una delle grandi risorse del laboratorio. Ma a metà maggio alcuni membri del team hanno potuto farvi rientro per studiare il COVID-19, e fare quindi ripartire le colture. “Ci ha fatto guadagnare del tempo per tutti gli altri progetti,” spiega Forneris. In più, le proteine del coronavirus sono talmente richieste che Forneris sta valutando di creare una spin-off per produrle su scala industriale.

Il vaccino non è la fine della storia

Dopo quasi 10 mesi di pandemia, ci sono stati grandi progressi nella diagnosi, nella terapia e nelle strategie vaccinali. Ma sappiamo ancora poco sul perché alcuni pazienti abbiano un decorso così peggiore di altri. “In assenza di un modello animale, non lo potremo mai sapere,” dice Iannacone, che studia abitualmente come il sistema immunitario si è evoluto per reagire agli agenti patogeni. I topi non vengono normalmente infettati dal virus. Alcuni ricercatori li hanno modificati geneticamente aggiungendo la versione umana del recettore, ma non basta per causare i sintomi più gravi osservati nell’essere umano.

Un miglior modello murino di COVID-19 permettere di studiare perché alcuni pazienti sviluppano sintomi molto peggiori di altri. Credit: dra_schwartz/ E+/ Getty Images

Nella speranza di ottenere un modello che riproduca meglio il COVID-19, Iannacone e il suo team hanno provato a modificare geneticamente i topi in vari modo, per esempio modificando direttamente il recettore murino. Per lavorare in sicurezza con topi infettati dal coronavirus, il laboratorio di Iannacone ha dovuto acquistare nuove attrezzature e creare spazi appositi negli stabulari. “Questo è stato possibile anche grazie a delle donazioni da parte di imprenditori italiani,” spiega.

Ora Iannacone teme che il flusso di finanziamenti possa finire presto. Se arriverà un vaccino efficace, i governi e gli enti finanziatori potrebbero considerare il problema risolto e tagliare gli investimenti nella ricerca di base, una decisione che sarebbe pericolosa. “Questa pandemia è così grave anche perché non è stato fatto il lavoro di ricerca di base sui coronavirus che si sarebbe dovuto fare,” aggiunge.

Mentre Iannacone pensa di continuare a lavorare sul COVID-19 anche dopo la fine della pandemia, altri ricercatori non vedono l’ora di ritornare a tempo pieno alle proprie ricerche pre-pandemia. “Sono entrato nel mondo COVID per aiutare in un momento di difficoltà,” chiarisce Casola. “Ne uscirò quando sarò sicuro di aver dato il mio contributo.”