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In senso orario, da in alto a sinistra: Alessandra Biffi, Vito Cacucciolo, Woojin Kwon, Luisa De Vivo.

Ricercatori e dottorandi italiani si spostano da un Paese all'altro in misura significativamente maggiore rispetto alla media dell'UE, secondi solo alle loro controparti spagnole, dicono i dati di MORE4 (Mobility Patterns and Career Paths of EU Researchers), un'indagine del 2021 finanziata dalla Commissione europea.

La mancanza di opportunità e le condizioni di lavoro insoddisfacenti spesso spingono gli scienziati italiani a cercare migliori opportunità all'estero. 'L'Italia rimane uno dei Paesi con il livello più alto di mobilità forzata legata all'assenza di opzioni per una carriera in ambito accademico', spiega l'indagine. Nel 2019, quasi il 20% dei ricercatori italiani che si sono recati all'estero ha dichiarato di averlo fatto a causa della mancanza di fondi e posizioni.

Tuttavia, un'indagine del 2018 dell'Istat mostra che poco meno del 2% dei dottorandi italiani dichiara di voler lasciare il Paese "definitivamente". E diverse iniziative, come borse di studio pubbliche e private e agevolazioni fiscali, sono state lanciate negli anni per invogliare gli accademici a rientrare in Italia dall'estero. Nature Italy ha parlato con quattro scienziati che, dopo aver trascorso periodi all'estero, sono tornati in Italia.

ALESSANDRA BIFFI: andare all'estero deve essere una scelta strategica

Direttrice della Clinica di Oncoematologia Pediatrica dell'Università di Padova e coordinatrice della ricerca su cellule staminali e terapia genica presso l'Istituto di Ricerca Pediatrica di Padova.

Non credo che andare all'estero sia imprescindibile. Chi fa ricerca scientifica ha un obiettivo, che nel mio caso era aiutare i pazienti con malattie rare e incurabili. Per raggiungere il proprio obiettivo bisogna andare nel posto giusto, che siano gli Stati Uniti o l'Africa. Il luogo deve essere un mezzo per raggiungere un fine.

Non rientro nel classico caso del ricercatore che va all'estero in giovane età, perché mi sono recata negli Stati Uniti per un periodo significativo di ricerca quando avevo 42 anni. Fino ad allora, avevo lavorato per più di 15 anni in un ambiente all'avanguardia, l'Istituto Telethon San Raffaele per la terapia genica. Non ho mai avuto la sensazione di dover andare all'estero per fare meglio quello che già facevo.Ma poi sono stata chiamata negli Stati Uniti per assumere un incarico di professore associato all'Harvard Medical School e per dirigere il programma di terapia genica al Boston Children's Hospital. Era un'opportunità di crescita professionale nel mio campo.

Forse negli Stati Uniti è più facile accedere ai finanziamenti che in Italia, ma ho sempre pensato che la qualità della scienza e dei ricercatori non sia diversa. Anzi, forse chi ha meno risorse e riesce comunque a essere competitivo è addirittura a un livello superiore. Ma la mancanza di risorse e un sistema meno efficiente ci svantaggiano.

VITO CACUCCIOLO: andare all'estero mi ha fatto apprezzare di più l'Italia

Professore associato al Politecnico di Bari, Research Affiliate al MIT Media Lab e CEO di Omnigrasp, che si occupa di robotica morbida e muscoli artificiali.

Il bello di andare all'estero è che si inizia a vedere più chiaramente se stessi e il proprio mondo. Fare ricerca in altri Paesi mi ha fatto apprezzare di più l'Italia. Ho capito che molti dei problemi che riscontravo in Italia, come la burocrazia, sono presenti anche altrove. Sono problemi sistemici nell'ambiente della ricerca.Ho conseguito il Master presso il Politecnico di Bari, in Puglia. La mia università offriva una laurea congiunta con la New York University, dove ho avuto la mia prima esperienza all'estero.

Questo mi ha fatto capire che nella vita volevo fare il ricercatore. Far entrare gli studenti nei laboratori, mostrare loro come si fa ricerca, sono cose non ancora abbastanza comuni in Italia. Formazione e ricerca dovrebbero essere più permeabili l'una all'altra.

Dopo l'esperienza negli Stati Uniti, sono tornato in Italia per un dottorato di ricerca in biorobotica presso la Scuola Superiore Sant'Anna di Pisa. Ero di stanza in un laboratorio distaccato a Livorno, sulla costa toscana, e ho trovato un ambiente davvero internazionale.

Poi sono approdato all'Ecole Polytechnique Fédérale de Lausanne (EPFL), in Svizzera. È un luogo in cui la dinamica lavorativa è molto sana. Di norma, si rimane lì per un numero fisso di anni: il risultato è che i ricercatori collaborano, perché non sono in competizione per le stesse posizioni. Purtroppo, questo non è comune in Italia, dove c'è poca mobilità e si tende a rimanere nella stessa università. Questo crea una competizione interna perché tutti cercano di accaparrarsi la stessa cattedra.

Io e mia moglie avevamo programmato che l'esperienza in Svizzera sarebbe stata temporanea. Volevamo tornare in Puglia, dove siamo nati e cresciuti entrambi, per riportare lì quanto imparato e per crescere i figli accanto alle nostre famiglie. Mia moglie è un'insegnante e mi ha seguito per molto tempo, riuscendo sempre a lavorare senza rinunciare alla sua carriera. Poi le è stato offerto un posto stabile di insegnante in Puglia, e questo è stato un fattore chiave nella nostra decisione di tornare.

Al Politecnico di Bari ho contattato dei professori che avevo conosciuto in passato. Ho raccontato loro la mia storia e i risultati che avevo ottenuto finora, e sono stati molto accoglienti. Essere in un ambiente che ti accoglie bene è fondamentale quando si rientra dall'estero.

WOOJIN KWON: l'Italia ha la forza della sua gente

Principal Investigator di QUAVADIS, un progetto finanziato dall'ERC sulla simulazione di vortici quantistici presso il Dipartimento di Fisica dell'Università di Milano

Il mio caso - quello di un fisico sudcoreano che lavora in Italia - è molto particolare. Dopo aver lavorato come postdoc per un anno in Germania, sono arrivato in Italia con un assegno di ricerca e sono rimasto per quattro anni e mezzo al laboratorio LENS di Sesto Fiorentino, vicino a Firenze, anche grazie a una borsa Marie Curie. Nell'estate del 2022 sono ripartito per la Corea del Sud, e ora ho appena iniziato il mio nuovo incarico come PI del progetto ERC QUAVADIS, presso l'Università di Milano.

Gli italiani mi hanno detto che sono molto coraggioso. Credo che questo significhi che, in generale, è piuttosto difficile per gli stranieri adattarsi facilmente al sistema italiano - non solo alla ricerca e alla vita accademica.

La burocrazia italiana è molto lenta e complicata: come straniero, ho avuto un'esperienza da incubo. Dovevo ottenere un visto e poi richiedere un permesso di soggiorno, ma non era facile trovare funzionari che parlassero inglese in questura, l'ufficio incaricato di rilasciare i documenti agli stranieri. Così, mi sono sempre fatto accompagnare dal mio capo o dai miei amici del laboratorio, che mi hanno aiutato moltissimo.

Per quanto riguarda la vita accademica, il sistema coreano è molto più semplice. Un ricercatore lì ha più libertà, anche per piccole cose come l'acquisto di attrezzature per il laboratorio. Chi ha un fondo di ricerca può ottenere una carta di credito per la ricerca a suo nome e comprare direttamente ciò che serve, se è al di sotto di un importo stabilito. Durante la mia permanenza a Sesto Fiorentino, ho imparato che le cose sono molto più difficili in Italia.

Sto lavorando su atomi ultrafreddi e gas quantistici ultrafreddi. È una ricerca di frontiera, ma ciò che mi dà preoccupazioni sono per lo più problemi banali, come il superamento delle barriere linguistiche.

Il motivo per cui ho deciso di tornare in Italia è piuttosto personale. Mi piacciono molto gli italiani. Penso che le nostre culture siano compatibili in un certo senso, ed è facile diventare buoni amici. A Sesto Fiorentino ho incontrato molte persone meravigliose che hanno fatto la differenza per me: i miei colleghi di laboratorio, ma anche i miei vicini di casa. I miei padroni di casa sono diventati come una seconda famiglia per me.

Non è stata una decisione facile. Gli stipendi in Italia sono bassi e io ho quattro figli: sono riuscito a rientrare solo perché ho vinto una borsa di studio del Consiglio europeo della ricerca. Ed è tuttora una grande avventura per tutta la mia famiglia.

Ho molte critiche da fare al sistema di ricerca italiano e al sistema sociale per gli stranieri. Ma credo che l'Italia abbia la forza della sua gente per cambiare le cose in meglio.

LUISA DE VIVO: a volte mi sento un'aliena

Principal Investigator presso il Brain and Sleep Research Laboratory dell'Università di Camerino, dove studia il legame tra perdita di sonno e salute mentale

La prima volta che sono andata all'estero è stato per lavorare in un laboratorio che studia il sonno e la coscienza a Madison, nel Wisconsin, negli Stati Uniti, uno dei laboratori più importanti al mondo su questo tema. Poi mi sono trasferita nel Regno Unito, a Bristol. Lì ho apprezzato il fatto di trovarmi in un ambiente internazionale, con molto ricambio, cosa che non noto qui in Italia. Tutto è un po' più statico, ci sono persone che sono nello stesso dipartimento da una vita e che non possono immaginare di trasferirsi. All'estero interi gruppi di ricerca possono cambiare. È più destabilizzante, ma forse più stimolante.

Ho potuto finalmente tornare in Italia grazie a una borsa della Fondazione Giovanni Armenise Harvard. Questo mi ha permesso di avere i fondi per avviare un laboratorio da zero, in un ambiente che mi ha permesso di essere indipendente dal punto di vista scientifico. Queste sono due condizioni rare, forse eccezionali, che mi hanno convinto a tornare in Italia.

Sono contenta di essere tornata. Sono andata all'estero per accrescere le mie conoscenze, ma ho sempre voluto sentirmi parte della mia comunità italiana. Ho capito che mi trovo meglio nella cultura del lavoro europea: negli Stati Uniti si lavora molto, anche a livelli malsani. In Europa c'è un migliore equilibrio tra lavoro e vita privata.

Ma bisogna scendere a compromessi. Fare ricerca in Italia è molto difficile perché tutto si muove molto lentamente. Arrivando dall'estero, bisogna accettare che ci sono tempi tecnici che non si possono aggirare. È molto frustrante: mentre il resto del mondo corre, tu aspetti.

La differenza più grande che noto tra l'Italia e l'estero però è fuori dal laboratorio. All'estero, quando dicevo di essere una scienziata, la gente capiva. Quella del ricercatore è riconosciuta come una professione. Mentre qui in Italia, quando dico "sono una ricercatrice", mi trovo di fronte a sguardi vacui. Non c'è consapevolezza di ciò che facciamo, in persone tutte le età. Spesso finisco per dire che sono una docente universitaria, e così le persone si convincono che il mio lavoro principale sia l'insegnamento, che è solo una parte minore di quello che faccio. E a volte è un po' scoraggiante, perché mi sento un'aliena, come se facessi un lavoro che non è riconosciuto dalla società.

Per ora essere in Italia è vantaggioso e ne sono contenta. Ma se la mia situazione dovesse cambiare, sono pronta a rimettere in discussione la scelta.