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Un gruppo di ricercatori nei laboratori dell'Università di Trento, impegnati ad analizzare campioni virali durante la prima ondata di COVID-19 nel marzo 2020. Credit: Alessio Coser/University Of Trento via Getty Images.

Le metodiche di sequenziamento e di analisi ci hanno permesso di tracciare in tempo reale l’evoluzione di SARS-CoV-2. La tecnologia a mRNA ci ha consentito di sviluppare vaccini contro il SARS-CoV-2 in tempi rapidissimi. Gli anticorpi monoclonali anti SARS-CoV-2 sono stati usati come farmaci per la malattia da Covid-19. Non sono che tre esempi di applicazioni della ricerca di frontiera svolta in settori diversi delle scienze della vita, che ci hanno portato grandi benefici nella gestione della recente pandemia.

Questo tipo di ricerca di frontiera è finanziato poco e molto irregolarmente in Italia, mentre in Europa è sostenuta dallo European Research Council (ERC), che ha riscosso grande successo sia dal punto di vista dell’accoglienza nella comunità scientifica che dei risultati ottenuti. L’ERC finanzia progetti dotati di cospicui budget (da 1.5 a 2.5 M€) e di lunga durata (5 anni). Si rivolge sia ai più giovani con gli Starting Grant, per aiutarli a diventare indipendenti nella loro carriera, sia ai ricercatori in fase di consolidamento della carriera con i Consolidator Grants e infine ai ricercatori ormai maturi con gli Advanced Grants. I recenti risultati degli ERC Starting Grants, dedicati ai giovani che hanno completato il loro dottorato di ricerca da meno di 7 anni, dovrebbero far suonare un preoccupante campanello d’allarme per il futuro della ricerca nelle scienze della vita in Italia.

Le scienze della vita (o Life Sciences, LS) ricevono il 39% del budget totale dell’ERC. Le scienze fisiche ed ingegneristiche (Physics and Engineering o PE) ricevono il 44%, mentre le scienze umane e sociali (Social sciences and Humanities, SH) ricevono il 17%. Nell’ultimo bando per gli Starting Grants solo 4 progetti finanziati ad istituzioni italiane ricadono nel settore LS, contro ben 17 nel settore PE e 11 nel settore SH.

Volendo allargare lo sguardo e considerare un campione più ampio, se guardiamo ai risultati degli ultimi 5 anni notiamo una notevole sproporzione fra i progetti finanziati a ricercatori operanti in Italia fra i tre ambiti scientifici appena descritti, in particolare per quanto riguarda i programmi Starting e Consolidator. Se per gli Advanced Grants la distribuzione fra LS, PE e SH è stata di 16, 21 e 29 progetti, per i Consolidator è di 14, 43 e 36 e per gli Starting è di 16, 80 e 50. E se consideriamo qual è la proporzione di progetti italiani rispetto a tutti quelli finanziati dall’ERC sempre nell’ultimo quinquennio, vediamo che per gli Advanced Grants è 5,2%, 4,4% e 10,9% rispettivamente per LS, PE e SH, per i Consolidator è 3,1%, 6,5% e 8,5% e per gli Starting è 2,6%, 8,7% e 8,5%.

I numeri parlano chiaro: i giovani ricercatori italiani operanti nelle scienze della vita non riescono ad eccellere in questa difficile competizione quanto i loro colleghi delle scienze fisiche e quelli delle scienze umane. Altrettanto non si può dire per i ricercatori più maturi. Sono numeri che ci devono far preoccupare: il futuro della ricerca e del paese dipende dalla nostra capacità di allevare giovani che riescono ad eccellere anche nelle competizioni più dure, e che svolgono ricerca di frontiera in grado di avere un impatto sulla nostra vita quotidiana.

Possiamo immaginare le obiezioni di alcuni: il motivo è che i nostri giovani migliori svolgono le loro ricerche all’estero. Se anche questo fosse vero (cosa che non appare dagli stessi dati ERC), il fatto che nei settori delle scienze fisiche e di quelle umane le cose stiano diversamente indica che è possibile avere giovani brillanti che restano in Italia a svolgere la loro ricerca.

E allora forse bisogna guardare in maniera critica al nostro sistema di mentoring e di sviluppo delle carriere dei giovani nell’ambito delle scienze della vita. Sicuramente due aspetti che pesano molto nel determinare il successo o l’insuccesso nei progetti ERC per i giovani sono la mobilità e la dimostrata indipendenza rispetto al supervisore del dottorato. Ripensare le carriere dei giovani facendo conoscere loro realtà di ricerca diverse da quelle in cui si sono formati, responsabilizzarli nella gestione della ricerca, inserirli in gruppi di ricerca strutturati in cui possano confrontarsi apertamente sulle loro tematiche di ricerca, recidendo presto quel cordone ombelicale che li lega troppo a lungo al loro mentore iniziale, sono tutti aspetti sui quali noi ricercatori operanti nelle scienze della vita dobbiamo riflettere a fondo assieme alle istituzioni scientifiche a cui apparteniamo.

Università ed enti di ricerca dovrebbero istituire sistemi di mentoring per i giovani ricercatori e dovrebbero dotarli di fondi per lo start up delle attività di ricerca che permettano loro di rendersi indipendenti, accettando il fatto che ogni nuova assunzione di un giovane ricercatore comporta anche un investimento in fondi di ricerca a lui destinati. Il legislatore, il Ministero dell’università e ricerca e l’Agenzia nazionale per la valutazione della ricerca (ANVUR) dovrebbero ripensare i processi di reclutamento e di valutazione dei giovani favorendo ad esempio la qualità molto più che la quantità delle pubblicazioni e accelerando il raggiungimento di posizioni che, anche quando non garantiscano il tempo indeterminato, mettano i giovani in condizione di fare ricerca in maniera indipendente. Infine, le società scientifiche del settore dovrebbero portare avanti iniziative per aiutare i giovani ricercatori nella loro crescita scientifica.

Ma ovviamente servirà anche e forse soprattutto un cambio di mentalità da parte dei ricercatori senior. Che dovranno essere disposti a lasciar andare i giovani per la loro strada senza però abbandonarli, trovando un equilibrio fra ‘cure parentali’ e addestramento all’indipendenza scientifica.