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L'Italia è il principale beneficiario del piano NextGenerationEU. Dei 191,5 miliardi di euro che riceverà, quasi 13 miliardi sono destinati al settore ricerca. Credit: TSEd/Alamy.

Università ed enti di ricerca italiani si stanno affrettando a completare le domande di partecipazione a un bando che creerà cinque grandi consorzi di ricerca collaborativa, ognuno dei quali riceverà fino a 400 milioni di euro dal Piano nazionale di recupero e resilienza (PNRR). Il bando dà il via a una serie di investimenti in ricerca e trasferimento tecnologico legati ai fondi post-pandemia messi a disposizione dall'Unione Europea, ma parteciparvi si sta rivelando uno stress test per il sistema di ricerca italiano.

Il bando è stato pubblicato a dicembre e si chiuderà il 15 febbraio. Mira a distribuire €1,6 miliardi di euro a cinque centri nazionali su tecnologie "chiave abilitanti", vale a dire simulazione avanzata e big data, terapie geniche e farmaci a base di RNA, biodiversità, mobilità sostenibile e tecnologie per l'agricoltura. Un'istituzione (l'"hub"), sarà responsabile della gestione generale, e tra 5 e 15 centri in tutto il paese (gli "spoke") svolgeranno attività di ricerca, se necessario coinvolgendo altri gruppi e istituzioni come affiliati. Ogni centro dovrà impiegare almeno 250 ricercatori, con almeno il 40% di donne. Inoltre, i centri dovranno utilizzare almeno il 40% del loro budget per attività nelle regioni del sud, per contribuire a superare le diseguaglianze esistenti.

Il ministro dell'Università e della Ricerca, Maria Cristina Messa, spiega a Nature Italy che si aspetta una sola proposta per ogni centro. "Da quello che abbiamo sentito finora, sarei sorpresa se ce ne fossero di più,” dice. “La convergenza su una sola proposta per centro è stata incoraggiata dal fatto che abbiamo fissato l'asticella molto in alto".

Non molti istituti hanno abbastanza massa critica ed esperienza per guidare i centri. Le proposte in preparazione sono guidate dall'Istituto Nazionale di Fisica Nucleare INFN a Bologna (simulazione avanzata e big data), dal Consiglio Nazionale delle Ricerche di Palermo (biodiversità), dal Politecnico di Milano (mobilità sostenibile), dall'Università di Padova (terapie geniche e farmaci a base di RNA), e dall'Università di Napoli Federico II (Agritech). Già solo definire la composizione dei consorzi è stata una sfida. "Il nostro progetto iniziale comprendeva 51 università, che abbiamo dovuto ridurre a 25 attraverso una selezione molto dura basata sulla qualità scientifica, per rispettare i requisiti", dice Matteo Lorito, rettore dell'università di Napoli Federico II.

I centri nazionali dovranno creare una nuova entità giuridica, che per il centro agritech di Napoli sarà probabilmente una fondazione di diritto privato, spiega Lorito. L'adesione al soggetto giuridico è limitata a un massimo di 49 entità, tra "spoke" e centri affiliati: fino a 25 università pubbliche o enti di ricerca vigilati dal Ministero dell'Università e della Ricerca, e fino a 24 tra società private ed enti di ricerca non soggetti alla vigilanza del MUR. Le istituzioni e i team non inclusi nel consorzio avranno poi la possibilità di applicare ai bandi ‘a cascata’ che verranno gestiti da ogni centro, utilizzando dal 10% al 50% del budget complessivo.

Tutte le proposte di centri saranno sottoposte a una valutazione in due fasi, che dovrebbe essere completata entro la fine di giugno. Anche se tutte hanno ottime possibilità di essere finanziate, l'importo esatto assegnato ad ogni centro dipenderà dalle rispettive valutazioni.

Questa è solo una parte dei finanziamenti del PNRR. Altri due bandi sono stati lanciati alla fine di dicembre, con scadenze nella seconda metà di febbraio. Permetteranno di costruire almeno 30 infrastrutture per la ricerca e l'innovazione (strutture sperimentali e di test condivise, in tutti i campi tecnologici, finanziate con 1,58 miliardi di euro), e 12 ecosistemi regionali per l'innovazione (consorzi regionali più piccoli che collaborano su tecnologie vicine ad essere applicate sul mercato, finanziati con €1,3 miliardi). Un altro round, previsto per la fine di marzo, assegnerà 1,61 miliardi di euro a 10 partenariati estesi sulla ricerca di base e interdisciplinare, coinvolgendo il mondo accademico e l'industria.

Partecipare a questi finanziamenti sta mettendo a dura prova tutte le università, grandi e piccole, con la governance e gli uffici ricerca impegnati da settimane a studiare i bandi e preparare i progetti. Il tutto mentre lo staff del ministero - che sta rapidamente aumentando il suo personale e gli esperti esterni assegnati a questi bandi – aggiornava ripetutamente le Q&A sul sito.

Alcune università hanno faticato a coinvolgere le loro comunità accademiche nelle proposte, mentre altre hanno reagito più prontamente. L'Università di Firenze, per esempio, ha creato una task force che ha coinvolto i capi di tutti i suoi 21 dipartimenti. "Alcuni dei nostri colleghi erano così impazienti di essere coinvolti che ci hanno contattato il giorno dopo la pubblicazione del bando chiedendo delle linee guida, quando noi stessi stavamo ancora cercando di capire i dettagli", dice Debora Berti, vicerettore per la ricerca a Firenze.

"L'ammontare complessivo dei finanziamenti è senza precedenti per la comunità della ricerca italiana", dice Luigi Nicolais, professore di ingegneria all'Università Federico II di Napoli, ed ex presidente del Consiglio Nazionale delle Ricerche. "Questo è molto positivo, ma solleva preoccupazioni sulla capacità del sistema della ricerca di mettere a frutto i fondi e di lasciare un'eredità duratura". Nicolais è preoccupato soprattutto per i tempi stretti, visto che tutti i fondi europei devono essere utilizzati entro il 2026.

"Anche prima della pandemia, l'Italia stava perdendo terreno sia sul piano economico sia su quello scientifico, e ora dobbiamo approfittare di questa opportunità", dice Fabio Zwirner, vicerettore responsabile della ricerca all'Università di Padova ed ex vicepresidente del Consiglio europeo della ricerca. "Questi fondi dovrebbero essere il segno di un cambiamento duraturo".

Messa sottolinea che il fondo ordinario per le università italiane sarà anche gradualmente aumentato dagli attuali 8,4 miliardi di euro annui fino a oltre 9,2 miliardi annui nel 2026. Insieme all'aumento della dotazione del programma per i progetti biennali di rilevante interesse nazionale (PRIN), e al nuovo Fondo italiano per la scienza (FIS) che assegna grant per ricerche individuali, dovrebbero garantire la sostenibilità a lungo termine dei cinque centri nazionali e delle altre iniziative che verranno lanciate. "Mi aspetto che tutti questi investimenti abbiano un effetto duraturo sulla produttività scientifica, sulla creazione di spin-off e sul numero di docenti, che mi aspetto passi dagli attuali 55,000 a 70,000 entro dieci anni", conclude Messa.