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Credits: Laura Lezza/Getty Images.

Il pessimismo sulle prospettive di carriera e le insoddisfacenti condizioni di lavoro sono le ragioni principali per cui molti ricercatori italiani migrano all’estero, come conferma un’analisi di Science and Public Policy. Lo studio1 stima che l’Italia abbia visto emigrare 14.000 ricercatori dall’inizio della crisi finanziaria del 2008, quando iniziarono i tagli ai fondi per la ricerca in Italia, un taglio seguito da un’inversione di rotta solo parziale dopo il 2015. Per esaminare più in dettaglio i fattori dietro quel flusso, gli autori hanno attinto ai dati ricavati da MORE3 (Mobility Patterns and Career Paths of EU Researchers), un'indagine statistica sulla mobilità internazionale dei ricercatori finanziato dalla Commissione Europea.

Gli autori hanno estratto un sottoinsieme del dal database di MORE3 e confrontato un gruppo di ricercatori italiani che lavorano in Italia con un gruppo di ricercatori, pure italiani, che lavorano all’estero; hanno poi ripetuto l’operazione con un confronto tra ricercatori italiani e non italiani che lavorano in Austria, in Svizzera, nei Paesi Bassi e in Lussemburgo (i quattro Paesi che ospitano il maggior numero di ricercatori italiani nel campione di MORE3).

In Italia, quasi la metà dei ricercatori (e tre dottorandi su quattro) afferma di essere malpagata o pagata appena per sbarcare il lunario, rispetto al 15% di ricercatori italiani attivi all’estero (e un dottorando su dieci). Anche la mancata trasparenza nei metodi di assunzione influenza la “mobilità forzata”, come la chiamano gli autori. Il reclutamento nella propria istituzione è considerato “trasparente e basato sul merito” dal 57% dei ricercatori in Italia e dall’80% dei colleghi all’estero. I ricercatori italiani impiegati oltreconfine hanno una fiducia quasi doppia nelle prospettive di carriera rispetto ai colleghi rimasti in Italia.

Come osserva lo studio, queste non sono le motivazioni tipiche della mobilità internazionale: i ricercatori migrano anche da altri Paesi, ma lo fanno essenzialmente per costruire una rete professionale, per accrescere la produttività nella ricerca e per accelerare l’avanzamento di carriera.

Gli scienziati italiani residenti all’estero contattati da Nature Italy si riconoscono in questo quadro. L’astrofisica Valentina Tamburello si è trasferita da Torino all’Università di Zurigo nel 2013 per svolgere il dottorato: “A Torino i posti di dottorato erano tutti ‘preassegnati’ a studenti di fisica nucleare, e pagati circa 1000 euro al mese; invece a Zurigo ho ricevuto uno stipendio iniziale di 3800 franchi (3400 €)”, racconta. Ottenuto il dottorato, le è stato offerto un contratto da postdoc: “Tornerei volentieri in Italia, ma ciò significherebbe fare uno o due passi indietro nella carriera”, ha aggiunto.

Quando il suo relatore l’ha incoraggiata a fare domanda di dottorato all’Università di Utrecht, nei Paesi Bassi, e all’Università di Chieti dove si era appena laureata, la geoscienziata Vittoria Lauretano ha vissuto due esperienze “opposte”: “Per il posto a Utrecht ho sostenuto due colloqui, uno dei quali di persona, pagato dall’Università; per il posto a Chieti, invece, ho partecipato a un concorso pubblico, benché si vociferasse che i posti erano preassegnati”. Ha scelto i Paesi Bassi per via dello stipendio migliore, della maggiore indipendenza e delle opportunità più concrete di firmare gli articoli come prima autrice, spiega. Non ha mai pensato di rientrare in Italia, e attualmente lavora come postdoc all’Università di Bristol, nel Regno Unito.

Altri ricercatori italiani sono invece andati all’estero dopo avere ottenuto il dottorato in Italia. Dimitris Spiliotopoulos stava completando il dottorato in biologia cellulare e molecolare a Milano quando, nel 2013, gli è stata offerta una posizione come postdoc all’Università di Zurigo. Oggi è direttore scientifico di un’azienda biotecnologica nei pressi di Basilea, e non ha in progetto di ritornare nel nostro Paese: “Quasi tutti i miei amici rientrati in Italia a seguito delle iniziative governative sono rimasti delusi”, spiega.

Dal 2015 sono state introdotte diverse iniziative, con uno stanziamento totale di 30 milioni di euro, volte a incentivare il rientro dei ricercatori italiani. È stato creato un nuovo percorso affinché le Università assumessero come professori associati i beneficiari di finanziamenti del Consiglio europeo della ricerca (ERC), ed è stato introdotto un piano di riduzione fiscale per far rientrare queste figure professionali: “Quanto è stato realizzato finora è come una goccia nel mare”, commenta Mario Pianta, della Scuola Normale Superiore di Firenze, e coautore dello studio. “Il tempo è maturo per riportare in Italia perlomeno 5000 ricercatori altamente qualificati, anche a causa della drastica riduzione di opportunità negli USA e nel Regno Unito”.