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Una donna Neanderthal ricreata dagli artisti olandesi Andrie e Alfons Kennis, basandosi su anatomia dei fossili e su uno studio del DNA per il colore di pelle e capelli. Credit: Joe McNally/Hulton Archive/Getty Images.

Nel tentativo di comprendere quali fattori rendono alcune persone più vulnerabili di altre alle forme gravi di COVID-19, diversi gruppi di ricerca hanno presto intuito un possibile ruolo per alcune mutazioni in una regione del cromosoma 3. Più o meno nello stesso periodo, uno studio del 2020 dimostrava che quella regione è stata ereditata dagli esseri umani moderni al momento degli incroci con i Neanderthal1. Ma non era ancora chiaro quali varianti geniche in particolare aumentassero il rischio di sintomi gravi, e perché. Ora un nuovo studio a cui hanno partecipato scienziati italiani ha ristretto la ricerca a quattro varianti di origine neandertaliana, legate a geni funzionali2.

Lo studio è iniziato come un'analisi computazionale che puntava a confrontare campioni da esseri umani moderni provenienti da una biobanca in Estonia e sequenze genomiche di Neanderthal, per capire quali geni si siano conservati nel corso dell'evoluzione. Utilizzando un software ad hoc, i ricercatori dell'Università di Tartu avevano scoperto che una regione del cromosoma 3, con più geni al suo interno, è finita nel nostro DNA in seguito all’incontro con i Neanderthal, giungendo quindi in modo indipendente alla stessa conclusione pubblicata nel 2020. "Abbiamo iniziato questo progetto prima del COVID-19 e abbiamo trovato diversi polimorfismi nella regione che corrispondevano ai campioni provenienti da Neanderthal", spiega Davide Marnetto, precedentemente a Tartu e ora all'Università di Torino. Quando l'associazione con la malattia grave è diventata chiara, Marnetto e i suoi colleghi hanno deciso di analizzare ulteriormente i risultati ottenuti.

Per indagare quali varianti ereditate dai Neanderthal influenzano direttamente l'espressione genica, gli scienziati hanno eseguito un massive parallel report array (MPRA) in collaborazione con un gruppo dell'Università di Harvard. Questa tecnica consente di testare l'espressione di una specifica variante in linee cellulari umane per valutarne la funzionalità e la rilevanza per la funzione del gene. Gli autori hanno inoltre testato varianti presenti nella popolazione umana prima dell’incrocio con i Neanderthal, e nuove varianti apparse in una fase successiva dell'evoluzione umana, in modo da prendere in considerazione ogni possibile combinazione. Gli esperimenti hanno utilizzato linee cellulari che esprimono l'ACE2, il recettore per il SARS-CoV-2. In presenza e in assenza di SARS-CoV-2, hanno trovato quattro varianti sulla sezione "Neanderthaliana" del cromosoma 3 che modulano fortemente la regolazione dei geni CCR1 e CCR5, due recettori critici per le chemochine, piccole proteine che svolgono un ruolo fondamentale nell'attivazione della risposta immunitaria. Le tempeste di citochine sono caratteristiche delle reazioni gravi alla COVID-19 e lo studio implica il coinvolgimento di queste quattro varianti specifiche dei geni CCR1 e CCR5.

"A differenza di studi simili, questo lavoro è andato fino in fondo, dimostrando sperimentalmente ciò che gli autori avevano già visto a livello computazionale", afferma Hauke Busch, professore dell'Università di Lubecca, che non ha partecipato allo studio. Utilizzando un approccio tridimensionale (evolutivo, computazionale e di biologia molecolare), i ricercatori sono stati in grado, per la prima volta, di correlare varianti specifiche dei geni ereditati dai Neanderthal con gli effetti causali osservati in risposta all'infezione da COVID-19.

Gli autori sottolineano che, sebbene la collezione genomica estone utilizzata nello studio sia abbastanza rappresentativa degli europei con origini neandertaliane, non rappresenta la popolazione umana nel suo complesso. Saranno necessari ulteriori studi per confermare il ruolo di queste varianti e di altri rischi genetici nella risposta alla COVID-19 a livello globale.