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Credit: NASA.

Per gran parte della sua carriera, Luciano Pietronero ha avuto poco interesse per l'economia. A 71 anni, ha trascorso la maggior parte della sua vita a studiare fisica della materia condensata, che ha insegnato alle università di Groningen e Roma dopo esperienze industriali in USA e in Svizzera. Ora, come presidente del Centro Studi e Ricerche Enrico Fermi di Roma, specializzato nella ricerca interdisciplinare sui sistemi complessi, mette insieme fisica ed economia per sviluppare modelli di previsione della crescita economica a lungo termine1,2. Modelli molto richiesti, in questo momento in cui i governi devono pianificare investimenti senza precedenti per portare le economie fuori dalla pandemia e verso una transizione verde. Il lavoro di Pietronero ha attirato l'attenzione della Commissione Europea e della Banca Mondiale, con cui l'istituto Fermi collabora. Gli abbiamo chiesto come funzionano i suoi modelli e come l'Italia usare al meglio i fondi per la ricerca e sviluppo che vengono dal recovery fund dell'Unione europea.

Come si è avvicinato all’economia dalla fisica?

Amo la complessità, non solo in fisica. Considero la cellula il sistema più affascinante e complesso del pianeta. Anche l'economia è un sistema molto complesso, in cui persone, prodotti, denaro interagiscono tra loro. Ho provato ad affrontare alcuni problemi economici come se fossero problemi di fisica. I miei modelli non pretendono di risolvere i principali problemi economici, ma possono ispirare le decisioni del governo.

Il suo modello si basa sul concetto di "fitness” economica. Cosa significa?

È un indicatore che misura la competitività di un paese sulla base della versatilità e complessità dei prodotti che esporta. Utilizziamo dati disponibili pubblicamente e applichiamo un algoritmo matematico ispirato a quello che Google utilizza per classificare le pagine web. Nel nostro caso, classifichiamo paesi e settori economici all'interno dei paesi. In questo modo forniamo informazioni quantitative e scientificamente verificabili, complementari alle informazioni finanziarie veicolate dal Prodotto Interno Lordo, e più strettamente legate alla capacità produttiva intrinseca di un Paese. Ogni aumento della fitness corrisponde ad un aumento della complessità del sistema produttivo, che è il vero motore della crescita, e sarà la chiave per la ripresa dopo la pandemia.

Luciano Pietronero

Secondo questo modello, su quali settori dovrebbe scommettere l'Italia al momento di investire i fondi del piano UE "Next Generation"

Riusciamo a individuare opportunità e rischi che non sono così evidenti dalle analisi tradizionali. Ad esempio, la competitività italiana sulle tecnologie dell'informazione e della comunicazione è oggi piuttosto bassa, ma prevediamo che con i giusti investimenti in cinque anni l’Italia potrebbe diventare uno dei primi dieci paesi del settore. Possiamo andare più in dettaglio e identificare anche traiettorie a livello di singoli prodotti. Per esempio, la nostra analisi ci dice che l'Italia ha buone probabilità nelle tecnologie radar. il settore delle biotecnologie ha un grande potenziale, in buona parte perché deriva da una sanità pubblica in buona salute. Il modello ci dice anche che il Sud Italia è fondamentale. Il Nord è già altamente competitivo, ma l'intero paese può diventare più competitivo solo se cresce anche il Sud. Lì, le energie rinnovabili e le tecnologie per l'agricoltura sono particolarmente promettenti.

Il cosiddetto Piano Amaldi, citato nel Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR), pone grande enfasi sugli investimenti sulla ricerca di base come motore di crescita. È d'accordo?

L'idea che la crescita economica derivi dalla sola ricerca di base non ha molto senso per me. Le faccio un esempio. La luce emessa da un paese di notte è un ottimo indicatore del PIL, ma questo non vuol dire che si guadagni di più accendendo la luce. Chi ha più denaro accende di più la luce, ma non il contrario. Allo stesso modo, i paesi di successo hanno una forte ricerca di base, ma la ricerca di base da sola non fa il successo di un paese. Occorrono anche incentivi per il trasferimento tecnologico e un sistema industriale pronto ad applicare la ricerca.

L'Italia non ha una forte tradizione nella ricerca industriale. Perché?

Ha poche grandi aziende, e questo è un limite perché sono loro che fanno ricerca. Credo che debba essere soprattutto lo Stato a finanziare ricerca e innovazione, perché per le industrie italiane costa troppo. Le industrie possono poi trasformare l'innovazione in nuovi prodotti e mercati. Ma prima, l'Italia ha bisogno di creare una cultura del trasferimento tecnologico, promuovendo il rispetto e la coesione tra ricerca e impresa. Spendiamo 300.000 euro per formare ogni dottore di ricerca e lasciamo che i migliori se ne vadano. Dobbiamo tenerli qui, e un modo per farlo sarebbe aiutarli a creare aziende e startup.