Read in English

Ghanya Al-Naqueb ha lasciato lo Yemen nel 2017, e ora fa ricerca sulla nutrizione All'Università di Trento. Credit: UniTrento/FedericoNardelli.

A Trento, Ghanya Al-Naqueb estrae olio di semi di fichi d'India, provenienti dalla Sicilia e dal suo Paese, lo Yemen. Poi ne analizza i componenti chimici e ne studia l'effetto sulle cellule. Questa sostanza potrebbe aiutare a combattere le malattie cardiovascolari e ridurre l'accumulo di grassi.

Al-Naqueb era docente di scienze nutrizionali all'Università di Sanaa, quando lasciò lo Yemen nel 2017. "Non volevo andarmene dal mio Paese, ma nel 2015 la mia università è stata bombardata", racconta. "Ho perso lo stabulario, i campioni sono diventati inutilizzabili perché non c'era elettricità, e le lezioni sono state interrotte per due anni", ricorda.

Dopo due anni in Germania, è arrivata a Trento nell'agosto 2020, grazie a una borsa di studio destinata ai ricercatori a rischio. L'Università di Trento fa parte di Scholars at Risk (SAR) Italia, un'organizzazione che coordina gli sforzi di oltre 30 istituzioni accademiche del paese. "Le università che ospitano studiosi a rischio comprendono che in questo modo si salvano voci importanti, consentendo loro di fare progressi nei rispettivi campi di ricerca, cosa che a sua volta aiuta il progresso della conoscenza globale", afferma Sinead O'Gorman, direttrice di SAR Europa.

"Essere a Trento è un’esperienza splendida. Sto collaborando con tre istituzioni diverse, l'ambiente è molto adatto per lavorare e tutti appoggiano la mia ricerca", dice Al-Naqueb. Allo stesso tempo, l'Italia riceve i benefici del suo lavoro e delle sue pubblicazioni, comprese le sue possibili scoperte sui fichi d'India siciliani.

La guerra in Ucraina ha generato una serie di iniziative per ospitare i ricercatori in fuga da quel paese. Tra queste, un fondo di 1 milione di euro del Ministero dell'Università e della Ricerca, più di 60 borse di studio del Consiglio Nazionale delle Ricerche, un bando di 200.000 euro dell'Istituto Nazionale di Fisica Nucleare. Ma questa è solo l'ultima di una serie di risposte a crisi umanitarie precedenti, che hanno colpito anche i ricercatori. "Attualmente cerchiamo di reagire a ogni crisi che si presenta, ma lo facciamo attraverso risposte non strutturate e basate sul profilo di ogni singolo [ricercatore]", spiega Graziella Gaglione, responsabile della mobilità al di fuori dell'Unità Europea dell'Università Sapienza di Roma. Per esempio, la Sapienza sta aiutando i ricercatori ucraini con fondi per progetti e per professori in visita. "Dobbiamo sistematizzare la risposta alle crisi", continua Gaglione.

Il CARA (Council for At-Risk Academics), la prima organizzazione dedicata ai ricercatori in pericolo, ha quasi un secolo di vita. Ma gli esperti concordano sul fatto che a mettere in moto la comunità scientifica è stata la guerra in Siria, iniziata nel 2011 e che ha innescato una migrazione di massa. Secondo una stima dell'UNESCO-TWAS (Accademia mondiale delle scienze), migliaia di ricercatori sono fuggiti da quel Paese.

Gökhan Demir ha dovuto lasciare la sua posizione accademica a Istanbul, ed è arrivato all'Università di Firenze nel 2020. Credit: G. Demir.

La crisi successiva è stata quella causata dalla repressione della libertà accademica in Turchia, a partire dal 2016. Quella situazione obbligò Gökhan Demir, studioso di scienze politiche che allora lavorava presso la Yildiz Technical University di Istanbul, a cercare una posizione all'estero, arrivando all'Università di Firenze.

Demir è stato epurato nell'aprile 2017, condividendo la sorte toccata ad altri 400 studiosi che nel 2016 avevano firmato la petizione "Accademici per la pace", un appello per il rispetto dei diritti umani nelle regioni turche dove i curdi sono l'etnia maggioritaria. "I media filogovernativi hanno pubblicato le nostre foto e siamo stati definiti traditori, terroristi, cosiddetti intellettuali e pseudo accademici", racconta Demir. Anche l'uso del loro passaporto ha subito limitazioni. "Molti di noi non hanno potuto lasciare la Turchia nonostante avessero ricevuto borse di studio dall'estero", racconta Demir, che fece domanda allo Scholar Rescue Fund, un programma di sovvenzioni per i ricercatori minacciati sostenuto dall'Institute of International Education, negli Stati Uniti. Ma solo nel dicembre 2020, quando la Turchia ha eliminato la restrizione sui passaporti, Demir ha potuto finalmente lasciare il paese.

L'ultima grande crisi prima dell'Ucraina si è verificata quando i Talebani hanno preso il controllo dell'Afghanistan. Homayoon Ganji, ricercatore afgano che si occupa di gestione delle risorse idriche, aveva intenzione di tornare in patria nel 2019, dopo un periodo di lavoro in Giappone. Ma a sua moglie, ex funzionaria delle Nazioni Unite in Afghanistan, fu consigliato di non tornare indietro, mentre stava partecipando a una conferenza in Italia. Ganji la raggiunse e si ritrovarono bloccati in un paese straniero che non avevano scelto. Da allora, Ganji ha lavorato presso le Università di Milano e Pisa, dopo essere stato selezionato per due borse di studio del programma SAR Italia. "In Giappone ci sono più fondi per la ricerca e questo rende le cose più facili", dice Ganji. "Ma nell'ambiente di lavoro mi sento molto più a mio agio, perché la cultura italiana è più vicina [alla nostra]".

Il ricercatore afgano Homayoon Ganji, ritratto all'Università di Pisa dove si occupa di ingegneria idraulica. Credit: Università di Pisa.

Le esperienze degli scienziati in fuga rivelano le carenze del mondo accademico italiano nell'accogliere i migranti. Demir, ad esempio, riferisce di una serie di difficoltà nell'ottenere il permesso di soggiorno, nell'aprire un conto in banca, nel trovare un posto dove vivere e persino nell'accedere all'assistenza sanitaria. Una sfida che sottolineano tutti gli studiosi che sono passati per quest’esperienza è la breve durata delle loro borse di studio. "Ho un contratto di un anno e mi servirebbero dai 3 ai 5 anni", sottolinea Ganji. "Serve tempo per capire una società, imparare una lingua, partecipare a conferenze e ottenere le connessioni che potrebbero portarti al tuo prossimo contratto".

Il problema deriva dal fatto che le borse di studio sono offerte volontariamente da una serie di istituzioni, con molti sistemi di finanziamento diversi. "L'Italia non ha pensato finora a un modo olistico e coerente di affrontare la questione", afferma Peter McGrath, coordinatore dell'Unità di diplomazia scientifica e del partenariato inter-accademico presso l'UNESCO-TWAS.

Germania e Francia, al contrario, hanno messo a punto programmi di sovvenzioni nazionali direttamente rivolti ai ricercatori a rischio, come l'Iniziativa Philipp Schwartz, lanciata dalla Fondazione Alexander von Humboldt nel 2016; o il progetto PAUSE, lanciato dal College de France nel 2017.

Mentre SAR Italia ha dato un posto di lavoro a sette borsisti nel 2020, l'Iniziativa Philipp Schwartz offre 50 posizioni all'anno, con una durata di due o tre anni. "Non si tratta solo di farli arrivare in Germania", afferma Frank Albrecht, direttore dell'iniziativa. "Ci concentriamo molto sulle prospettive dopo la fine della borsa". Il programma fornisce infatti anche fondi supplementari per la formazione linguistica, la strategia di carriera e la creazione di reti.

"Lo scopo principale è quello di mantenere gli studiosi nella comunità accademica, di non perderli perché sono obbligati trovare un altro lavoro", spiega Albrecht. "L'obiettivo a lungo termine è che tornino nel paese d'origine e ricostruiscano il mondo accademico, quando sarà possibile".

Altre iniziative sono pensate per aiutare gli studenti rifugiati. Decine di università italiane partecipano al progetto UNICORE (Corridoi universitari per i rifugiati) e a un altro programma di borse di studio del Ministero dell'Interno e della Conferenza dei Rettori (CRUI), che lo scorso anno hanno offerto rispettivamente 100 e 69 borse di studio a studenti rifugiati.

Le esperienze degli studenti che partecipano a questi programmi variano molto. Bidong Paul, studente di cooperazione internazionale alla Sapienza di Roma, di origine sudanese, è arrivato in Italia nel 2021 dall'Etiopia, dove era rifugiato dall'età di 18 anni, attraverso il programma UNICORE. Dice di essere molto soddisfatto del programma e di non aver dovuto affrontare grandi problemi.

Al contrario, Tamsin Njie, studente di scienze politiche all'Università di Padova, arrivato in Italia dal Gambia grazie a UNICORE nel 2015, vive un momento difficile. Spiega che la sua attuale borsa di studio è insufficiente, e oltre a studiare deve lavorare a lungo in un'azienda di bevande per arrivare a fine mese. "Vivere in una terra straniera, soprattutto in Italia, richiede forza e costanza", dice.

Affrontare questi problemi sarebbe un vantaggio non solo per i ricercatori e gli studenti che hanno bisogno di aiuto, ma anche per la scienza italiana. "Le istituzioni ospitanti acquisiscono una visione e una comprensione di altre società e condividono una cultura di accoglienza e apertura verso i nuovi arrivati. Hanno una visione della diversità e della libertà accademica come motori dell'eccellenza nella ricerca", afferma O'Gorman.