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Credit: DrAfter123/DigitalVision Vectors/Getty Images.

Le disparità di genere sono profondamente radicate nel mondo accademico, e colpiscono paesi anche molto diversi come l'Italia e la Norvegia. Uno studio comparativo sulla rivista Journal of Informetrics mostra che, in entrambi i paesi, è più difficile per le professoresse raggiungere i ranghi accademici più alti di quanto non lo sia per i colleghi uomini, nonostante siano altrettanto produttive dal punto di vista scientifico. Ma è ancora più difficile per le ricercatrici italiane che per quelle norvegesi, probabilmente a causa di differenze nei sistemi di welfare e dell’influenza di fattori culturali.

Lo studio ha analizzato1 la produzione scientifica dei professori universitari in Italia e Norvegia, confrontando la distribuzione di genere tra i due paesi, tra settori di ricerca e tra gradi accademiche. Gli autori spiegano di aver scelto di confrontare i due paesi per le loro importanti differenze nel modo in cui le responsabilità familiari sono condivise tra uomini e donne.

Utilizzando banche dati pubbliche sul personale accademico, gli autori hanno esaminato le pubblicazioni di 36.000 professori tra il 2011 e il 2015, prendendo in considerazione coloro che avevano ricoperto una posizione in Università per almeno tre anni, e con almeno una pubblicazione in quel periodo. Le donne rappresentano complessivamente il 33,8% del personale accademico nel campione italiano, e il 33,9% in quello norvegese. Ma in Italia le donne sono più concentrate nei ranghi accademici inferiori, rappresentando il 47,2% del grado corrispondente agli assistant professors, il 35,2% dei professori associati e solo il 18,3% dei professori ordinari. In Norvegia, le percentuali sono rispettivamente 41,5%, 46,5% e 26,1%.

“Abbiamo sviluppato un nuovo indicatore per misurare la performance scientifica, e non semplicemente la produzione nel corso del tempo” spiega Giovanni Abramo dell'Istituto per l'Analisi dei Sistemi e l'Informatica (IASI-CNR) del Consiglio Nazionale delle Ricerche di Roma, uno degli autori. L'indicatore incorpora sia i dati di output (il numero di pubblicazioni e citazioni) che gli input (numero di coautori, stipendio medio annuo, anni di esperienza). “Nella ricerca scientifica”, aggiunge il coautore Ciriaco Andrea D'Angelo dell'Università di Roma Tor Vergata, “di solito chi ha più risorse, come soldi e tempo, tende a ottenere risultati migliori. Indicatori come l'h-index non ne tengono conto, e noi ne volevamo uno più preciso”.

Secondo l’indicatore usato nello studio, nel complesso gli uomini sembrano superare le donne. La loro performance media è del 37% superiore a quella delle donne in Italia, e del 32% superiore in Norvegia. Ma questa differenza è principalmente dovuta al fatto che gli uomini sono sovra-rappresentati nel 10% di professori con la produttività più alta, e che in entrambi i paesi sono i professori ordinari - il gruppo in cui le donne sono meno presenti – ad avere in media prestazioni più elevate. Le differenze di performance tendono a svanire nel restante 90% dei ricercatori, e addirittura si ribaltano quando l’analisi prende in considerazione solo i professori ordinari. "In effetti, la produttività di uomini e donne non differisce molto, se non nel piccolo gruppo con la performance più alta", scrivono gli autori.

I ricercatori hanno anche simulato come apparirebbe la composizione del personale universitario se i ranghi accademici fossero allineati con la performance di ricerca. Hanno concluso che, a parità di altre condizioni, ci dovrebbero essere il 9% di donne in più tra i professori ordinari in Italia e il 6,5% in più in Norvegia.

“Da soli non possiamo spiegare le cause di questi fenomeni poiché sono coinvolti fattori culturali e relazionali complessi” dice D'Angelo. ”Noi abbiamo solo esaminato i dati, ma sociologi della scienza ed esperti di studi di genere avranno sicuramente molto lavoro da fare".

Per Ilenia Picardi, ricercatrice in sociologia presso l'Università Federico II di Napoli che studia il divario di genere nel mondo accademico, i risultati dello studio confermano le preoccupazioni sull'equità nell’organizzazione delle carriere, e suggeriscono che la produttività delle giovani ricercatrici è particolarmente influenzata dalla maternità. Le fasi iniziali della carriera di ricerca spesso coincidono con un periodo cruciale in cui le donne, più degli uomini, si trovano a dedicare molto tempo alla cura dei figli e alla famiglia.

Picardi aggiunge che vi sono fattori strutturali e culturali che influenzano la performance delle ricercatrici, ma spesso sfuggono agli indicatori. "In Norvegia, oltre il 90% dei bambini va all'asilo, mentre solo il 24% dei bambini lo fa in Italia” osserva. "La diversa natura dello stato sociale le diverse visioni culturali influenzano effettivamente le prestazioni dei ricercatori". Giulia Quattrocolo, ricercatrice italiana che guida un gruppo di ricerca presso il Kavli Institute for Systems Neuroscience a Oslo, è d'accordo. "In Norvegia abbiamo congedo di maternità più lungo e congedo di paternità obbligatorio", spiega. "La parità di genere è considerata importante e madri e padri hanno orari di lavoro più flessibili".

Tuttavia, sarebbe "estremamente riduzionista" se l'uguaglianza di genere nella ricerca tenesse in considerazione solo la maternità, osserva Picardi. "Ciò di cui abbiamo bisogno è un dibattito aperto sui meccanismi responsabili delle disuguaglianze di genere, come i bias intrinseci all’interno degli indicatori di produttività".